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I blog letterari e i soldi, un post piuttosto autoreferenziale

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di Christian Raimo

Oggi sono andato a Milano a parlare di quello che state leggendo, ossia di minimaetmoralia. Ero stato invitato in un panel che comprendeva eFFe, autore di un libro molto efficace sui bookblog, Marco Liberatore di Doppiozero, Stefano Salis del Sole 24ore e Alessandro De Felice di Rivista Studio. Tutte persone – e progetti – che stimo molto.

Ho preso questi appunti disordinati:

1) Dopo una breve introduzione di eFFe, si è andati a parare abbastanza subito sulla questione sostenibilità, ossia si è parlato di soldi.

2) La sensazione che avevo è che i blog letterari e i blog in generale hanno oggi raggiunto un peso nel dibattito culturale per cui parlare di soldi è sempre più pertinente. Questa sensazione mi si è palesata in maniera palmare quando ho visto la pubblicità che ho messo come immagine di apertuna a questo post.

3) La questione dei soldi si può declinare in tanti modi, per esempio si può parlare di valore, ossia di reputazione, fiducia e sostenibilità. Esempi: se metto della pubblicità su un sito come minimaetmoralia, ho la stessa autorevolezza? Se metto delle pubblicità di minimum fax? Se metto le pubblicità di altre case editrici? Se metto la pubblicità di una pizzeria? Se metto la pubblicità della Nike?
Comprereste un libro con della pubblicità in copertina o dentro?

4) Alessandro De Felice, publisher di Rivista Studio sosteneva che il problema del rapporto tra media culturali e pubblicità/aziende è una questione datata, superata. I media culturali, diceva, che parlano di letteratura o fanno critica culturale in Italia sono arretrati; accadrà, dovrebbe accadere, diceva, quello che accade virtuosamente per esempio nel mondo della moda, o quello che accade tra Prada e il mondo dell’arte.

5) Io sostenevo invece che la questione del rapporto tra critica culturale e aziende, tra media culturali e pubblicità, non è per niente datata. E poi sostenevo bene o male la seguente tesi: che i blog letterari hanno avuto e hanno una funzione di supplenza rispetto al vuoto di trasmissione del sapere che si è creato in Italia con la crisi delle università e della ricerca in generale. Su questo si era abbastanza d’accordo. Ma io sostenevo che, se siamo abbastanza d’accordo, bisognerebbe impegnarsi in delle battaglie politiche per finanziare meglio e con soldi pubblici le università. Che questa dovrebbe essere una priorità per chi fa del lavoro culturale. Che in questo modo troveremmo lettori, fruitori, il pubblico che potrebbe nel lungo periodo sostenere riviste, editoria e quant’altro.

6) Io sostenevo anche che c’è una parte del lavoro culturale che facciamo che è gratuito perché è militanza, ed è per me fondamentale. Che questa parte del nostro tempo che, da intellettuali, spendiamo per formarci, formare, confrontarci, discutere, lottare, è di fatto lavoro, ma è di fatto anche militanza, ed è il modo in cui fa politica un intellettuale in genere.

7) Sostenevo anche, citando Sergio Bologna, che la gente lavora per 3 euro a pezzo e magari fa il cameriere per campare, perché ci tiene a qualcosa di più prezioso del denaro, ossia lo status. In una società priva di riconoscimenti, con una coscienza di classe sfarinata, essere qualcosa – un autore, un critico, uno scrittore, un intellettuale… – ci fa sentire meglio.

8) Stefano Salis sosteneva che il lavoro va sempre pagato e che bisogna rivendicare il diritto a farsi pagare i pezzi. Io ero molto d’accordo, ma con due importanti precisazioni.

9) La prima precisazione è che non posso far finta che non esista una zona grigia di dibattito informale, volontariato, informazione politica, fandom, autopromozione… per cui è un po’ difficile distinguere nettamente tra quello che è lavoro e quello che non lo è.

10) Anche a me ovviamente piacerebbe moltissimo che il lavoro fosse sempre pagato e in modo equo, ma spesso, molto spesso non è così e per ottenere questo occorrerebbe una maggiore sindacalizzazione dei giornalisti culturali. In Italia esiste un ordine dei giornalisti che protegge sostanzialmente i giornalisti già tutelati, e una Federazione nazionale della stampa che si occupa quasi soltanto di questioni deontologiche e non lavoristiche.

11) La seconda precisazione è che la rete mette al lavoro qualunque cosa. Per cui, per fare l’esempio più semplice, anche i commenti che sono in fondo ai post di minimaetmoralia creano valore. La qualità del dibattito di questo sito è data anche da chi lo alimenta non solo nei post. Se per caso un mecenate decidesse di investire 100.000 euro in minimaetmoralia dovrei redistribuire parte di questi soldi anche ai commentatori? Non è una domanda retorica.

12) Quando spiego il marxismo a scuola, faccio sempre il solito esempio: Facebook vale in borsa – mettiamo – 50 miliardi di dollari, Facebook ha – mettiamo – 500 milioni di utenti; allora vuol dire, ragazzi, che ognuno di voi vale 100 dollari. Le vostre chiacchiere, le vostre foto, le vostre emozioni, vengono messe al lavoro, e costituiscono il plusvalore che fa volare Facebook in borsa.

13) La rete sfuma le differenza tra autore e fruitore. Gli utenti di anobii, di ibs, di Amazon, di Goodreads, che fanno le recensioni sono un enorme valore aggiunto. Non a caso Amazon si è comprato Goodreads.

14) La rete sfuma la differenza tra contenuto libero e contenuto pubblicitario. Oggi in rete in Italia si parla molto di native advertising, può essere un modello di sostenibilità che mantiene inalterata l’autorevolezza? Luca Sofri ne parlava in modo scettico qualche giorno fa. Io sono ancora più scettico.

15) Quando su minimaetmoralia mettiamo un incipit del “Commesso” di Malamud è pubblicità o è un contenuto autoriale, tra l’altro straordinario, offerto gratuitamente? Quando su minimaetmoralia, chessò, recensisco in modo molto severo il libro di Julian Barnes Il senso della fine è pubblicità contro Einaudi o pubblicità pro Einaudi? Minimaetmoralia si è conquistata una reputazione sufficiente perché un dibattito acceso come sul libro di Julian Barnes non sia intaccato minimamente dalla iattura di questo genere di perplessità?

16) Qualche anno fa, una decina direi, ero agli esordi sulle pagine musicali del Manifesto. Non ne sapevo un granché di musica, lo posso ammettere oggi, ma per compensare in dieci giorni lavorai tantissimo e scrissi un articolo-fiume sullo stato dell’arte della critica musicale, da Lester Bangs a Mojo fino alla rete. Citavo decine di riviste, recensivo antologie con il meglio della critica musicale, riportavo i dibattiti che esistevano tra i critici. La questione dirimente per molti era: come essere liberi quando sempre più spesso sono le case discografiche che oltre a mandarti decine di dischi, ti ospitano e ti pagano l’albergo se devi fare un’intervista al cantante X o al gruppo Y? Il direttore di Ultrasuoni di allora mi fece i complimenti per il pezzo. E come premio la settimana dopo mi disse se volevo andare a intervistare gli Air a Parigi: completamente spesato dalla Virgin.

17) Alla fine della discussione Alessandro De Felice mi ha regalato una copia di Rivista Studio. Ero contento. È una rivista che mi leggo quasi tutta, e questo numero è pieno di cose interessanti, una critica dal vivo a Sacro Gra, un reportage dal New York Time Magazine, i videogame con i mafiosi, etc… C’è anche un servizio dedicato a una giovanissima e bellissima artista che lavora a stretto contatto con la moda; Flaminia Veronesi, classe 1986. Mentre lo sfogliavo non capivo se si trattasse di un servizio promozionale o meno. C’è scritto come al solito nei servizi di moda: abito Valentino, chemisier Cristaseya. In una foto di questo servizio poi Flaminia Veronesi è accasciata sul letto e ci dà le spalle, ma stringe tra le mani una copia dei Diari di Virginia Woolf. L’edizione è quella dei Classics di minimum fax. Mi potrei chiedere: ci sta facendo pubblicità gratuita? Oppure: dovrebbe esserci scritto a lato Libro minimum fax? Oppure: è un product placement?

18) Tutti quanti stamattina concordavamo che in questa selva di contraddizioni, un valore imprescindibile è quello della trasparenza, trasparenza delle scelte, trasparenza nel codice etico, trasparenza con il lettore. È questo e soltanto questo che crea un rapporto di fiducia.
Io? In questo post un po’ scombinato sono stato abbastanza trasparente?


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